La peggior crociera della mia carriera
di Andrea Cavanna
A partire dal 1986 la nave da ricerca oceanografica “Maria Paolina G.” non aveva più la classe per navigare fuori dello stretto di Gibilterra. La nuova nave era in costruzione e il programma scientifico del Centro doveva andare avanti e prevedeva diverse campagne scientifiche nell’area che andava dalla Groenlandia all’Islanda e alla Norvegia, ben oltre il Circolo Polare Artico. I nomi delle crociere facevano riferimento a queste tre aree quindi si chiamavano GIN seguite dall’anno. In questo caso GIN86. Scientist in Charge (SIC) Tom Opkins.
Per mantenere fede al programma scientifico si cercarono altre navi tra le nazioni che collaboravano al progetto scientifico e trovammo la disponibilità della Reale Marina Olandese e quella della Reale Marina Belga. Io partecipai a tutte le campagne: due volte sulla nave olandese “Tydeman” e una volta sulla nave belga “Belgica”. È di quest’ultima che voglio raccontare.
Era Settembre del 1987 e la nave “Belgica“ faceva base a Zeebrugge (Zeebruges in francese) un porto mercantile e militare sulle coste del Belgio, poco lontano da Bruges.
Era anche il porto da dove partivano ed arrivavano molti traghetti diretti in Inghilterra. Questo porto era stato anni a dietro teatro di un tragico incidente. Un traghetto per una manovra sbagliata affondò e persero la vita molti camionisti. Zeebrugge era anche il porto dei pescherecci. Ce n’era una intera flotta. C’era anche un bellissimo mercato del pesce organizzato in stand, ed ognuno faceva a gara nel disporre il pesce, lo disponevano con arte come se fossero oggetti di alta oreficerie. Lo mangiammo anche quel pesce, in una delle tante trattorie attorno ai moli, locali alla buona, con gente semplice. Il pesce era il vero protagonista.
Nei giorni precedenti la partenza avevamo percepito dei segnali negativi che avrebbero pregiudicato l’andamento della crociera ma li riconoscemmo solo dopo con il senno di poi, al momento non ci facemmo caso.
Ecco alcuni di quei segnali:La nave era di piccole dimensioni, forse la metà della Maria Paolina. Quando andammo a bordo ci chiesero se avevamo portato gli stivali da acqua. “ A cosa servirebbero?” chiedemmo. “Durante la navigazione la poppa spesso si allaga” ci risposero. Visitammo i laboratori che avrebbero ospitato le nostre attrezzature e ci accorgemmo che non c’era spazio a sufficienza; decidemmo allora di rinunciare ad alcune apparecchiature; proponemmo di metterle nella stiva per averle a disposizione se fossero servite; ci suggerirono di non metterle nella stiva ma di lasciarle a terra in un magazzino della marina. Fu un suggerimento azzeccato. Scoprimmo, in navigazione alcuni giorni dopo, che molto spesso la stiva si allagava. I verricelli di bordo non erano idonei a svolgere il nostro lavoro e decidemmo quindi di imbarca il nostro. Lo installammo al centro della poppa, un posto poco felice ma non c’era altra soluzione. L’alternativa era quella di rinunciare alla crociera.
Il giorno prima di partire il comandante cadde dal ponte di comando e finì in acqua, precipitando tra la banchina e la murata della nave. Un vero miracolo, avrebbe potuto sfracellarsi o rimanere schiacciato tra la nave e la banchina, invece nuotò sotto la nave e rispuntò dall’altra parte indenne. Solo un grosso ematoma sulla gamba destra; forse a causa dell’impatto sulla superficie del mare.
Dopo pochi giorni di navigazione avvertivamo segnali ostili nei nostri confronti da parte dei marinai. Non erano abituati al mare aperto. Le loro uscite si limitavano all’area intorno lo Skelda, il fiume che divide il Belgio dall’Olanda, con qualche puntata oltre il canale della Manica con soste prolungate sulle coste inglesi e talvolta addirittura sino a Londra. Noi li avevamo costretti ad arrivare sino a Bodø, una delle cittadine più a nord della Norvegia in pieno Mare Artico.
Il mare aperto, quasi sempre agitato, rendeva la vita di bordo molto difficile. Con il mare mosso normalmente le navi rollano o beccheggiano, la Belgica si muoveva in tutte le direzioni, sembrava di essere su un giroscopio. Lo scafo della nave non era adatto a questo tipo di mare, andava bene per il lavoro che svolgevano a casa loro in zone con bassi fondali dove non serviva un grande pescaggio. In pratica un guscio di noce in mezzo alla tempesta e noi con loro. Non potevamo dargli torto per il loro malumore ma eravamo tutti, come si sul dire, “sulla stessa barca”.
Non essendoci cabine a sufficienza per tutti avevano attrezzato un container con quattro posti letto. Era collocato in una posizione alquanto scomoda. Per raggiungerlo bisognava passare su una strettissima passerella non facilmente percorribile, specialmente di notte e con il vento. Il container era sprovvisto del bagno ed era proibitivo pensare di raggiungere i bagni della nave. Però, messo alle strette, qualche coraggioso tentava di venire nel bagno della nave. Li sentivo perché la mia cabina era vicino alla porta che dava sull’esterno. Sentivo anche le loro imprecazioni.
Io ero in cabina con Enio Panfietti. Enio pur essendo grande e grosso ha sempre avuto paura quando montava il vento e il mare. Quando era sulla Maria Paolina e c’era mare in tempesta, Enio non dormiva mai, scarpe slacciate, andava sul ponte. Soleva sempre dire:”Sto sul ponte per sapere di persona, in caso di pericolo, che decisioni si prendono”.
Questa volta non poteva andare sul ponte e ogni volta che la nave veniva investita da un colpo di vento o da un’ondata e cominciava ballare lo sentivo dire “ Oh porca puttana!” e lo diceva ridendo, ma era un riso isterico.
Il mangiare non era certo quello della Paolina e non sempre il cibo avanzato lo buttavano via, te lo riproponevano qualche giorno dopo. Io ed altre colleghi fummo presi dalla dissenteria e ricordo di aver perso circa sette chili per quel disturbo. Dovetti aspettare di arrivare in porto per avere un medicinale per bloccare la dissenteria. Fu Vasco Duarte a scendere a terra per cercare una farmacia. Fu la mia salvezza. Probabilmente era stato l’arrosto a farci male. Sospettammo che fosse l’arrosto di una settimana prima e che non era stato conservato opportunamente.
La dimensione della saletta da pranzo non permetteva di ospitarci tutti assieme quindi ci chiesero se alcuni di noi fossero disposti a pranzare nella mensa dei marinai. Per noi non c’era problema, ci siamo sempre adattati a tutte le situazioni. Io ed altri tre accettammo di pranzare nella mensa marinai. All’ora di pranzo entrammo nella sala mensa, prendemmo il vassoio e ci avvicinammo al banco della distribuzione. Mentre eravamo in coda mi cadde l’occhio su un gruppo di marinai che ci guardavano e parlottavano tra loro in “fiammingo” non capivo certamente la loro lingua ma avevo intuito che ce l’avessero con noi . Non mi ero sbagliato.
Il giorno dopo presentandoci in mensa per la collazione trovammo un cartello sulla porta, in inglese, quindi diretto a noi che recitava:” Non è obbligatorio bussare prima di entrare, ma bussare è segno di buona educazione”. Siccome quel cartello era rimasto tutto il giorno sulla porta realizzammo che anche gli ufficiali erano concordi con quanto scritto. Decidemmo immediatamente di revocare la nostra disponibilità a mangiare in mensa. Avremmo mangiato tutti assieme nella sala mensa a noi preposta, con grande rabbia del cameriere.
E tutti i giorni ci chiedeva: “Qui mange a bas?” (Chi mangia giù?) ed io rispondevo:”Tout le monde mange haut!” (Tutti mangiano su!) e lui si incazzava perché doveva servire più persone. Più il tempo passava e più diventava insolente e maleducato sino a quando Domenico Galletti gli mostro una forchetta e gli disse in italiano:”La vedi questa? Io te la pianto qui!” indicando lo spazio fra gli occhi. Aveva capito perfettamente e da quel momento smise di fare il prepotente.
Sul fronte del lavoro le cose non andavano molto bene, la posizione del verricello si dimostrò infelice come avevamo previsto. Messo in quella posizione obbligava il cavo, al quale era collegato lo strumento che calavamo in mare per le misure, a tendersi più del dovuto e a contorcersi formando delle cocche. Per risolvere il problema facemmo sosta a Klaksvik alle isole Faroes per acquistare delle molle da applicare sui rinvii. Un palliativo, che non risolse il problema, ma ci diede l’opportunità di visitare queste isole.
Il mare inondava la coperta, come ci avevano predetto, e rendeva il lavoro precario e pericoloso. C’era il pericolo di cadere in mare. Non era piacevole cadere nell’acqua ghiacciata del Mare Artico. Chi fosse caduto in mare avrebbe avuto un tempo di sopravvivenza tra i tre a i cinque minuti, dopo di che sarebbe morto per ipotermia.
Il comandante era sempre in contrasto con lo scienziato belga. Un conflitto perenne perché lo scienziato voleva andare in un certo posto e il comandante si opponeva (giustamente) per ragioni di sicurezza: non era la nave adatta per questi posti e lui ne era consapevole. E quello lo minacciava di farlo sbarcare e di troncargli la carriera e l’altro che se ne fregava della carriera visto che era alle soglie della pensione. Infinite telefonate tra il Ministero dell’Ambiente e quello della Marina Militare.
In quel pellegrinare nel mare norvegese passammo anche il Circolo Polare Artico. Era obbligatorio festeggiare. Sospendemmo il lavoro e brindammo alla salute di quelli che passavano il Circolo per la prima volta. Per me era la terza volta ed ottenni ugualmente l’attestato del mio passaggio.
Intanto eravamo arrivati quasi in cima alla Norvegia; i marinai erano stanchi e nervosi. I rapporti con noi restavano sempre tesi. A quel punto il comandante aveva intuito che era giunto il momento di fare una pausa e decise di entrare nel porto di Bodø. Per entrare in porto avremmo dovuto aspettare il pilota che sarebbe arrivato l’indomani in elicottero. Il mare era agitatissimo e noi non potevamo restare in rada. Il comandante, che non voleva aspettare, disse che la nave aveva un’avaria ai motori e che doveva assolutamente entrare in porto e così fu, dopo un paio d’ore eravamo in banchina.
Il Comandante era caduto dal ponte, come ho raccontato all’inizio, ma nei momenti difficili era sempre lucido e determinato. Un Comandante con le “palle”.
Era iniziato il viaggio di ritorno, con le stesse sofferenze dell’andata ma eravamo in discesa ed eravamo predisposti a sopportare gli ultimi disagi. Giungemmo al fine in porto e come fulmini smontammo le apparecchiature, impacchettammo per bene tutto il materiale e riempimmo il container. Tirammo un grande sospiro di sollievo quando lo chiudemmo a chiave. In porto c’era già il camion che ci aspettava: caricammo il container sul camion e via alla stazione a prendere il treno per l’aeroporto.
Sul treno che ci conduceva a Brusselles, Enio Panfietti chiese un’informazione al controllore e mentre questi gli rispondeva vidi Enio svenire e accasciarsi sul sedile, immediatamente scattò l’allarme e alla stazione successiva ci fecero trovare il medico, nel frattempo Enio era rinvenuto e dopo un breve colloquio con il medico il treno ripartì alla volta di Brusselle. Lo svenimento era dovuto ad grande stress che Enio aveva accumulato per tutta la crociera. Salire sul treno significava la definitiva conclusione di questa avventura e si era finalmente rilassato, tanto rilassato da collassare. All’aeroporto portammo Enio in infermeria per un controllo medico prima di imbarcarci sull’aereo. Il medico constato che non c’erano impedimenti per il volo. Partimmo. Era giunto finalmente il momento di tornare a casa.
Qualche giorno dopo venimmo a sapere che il Direttore del Centro, Ralph Goodman, commentando la nostra avventura e viste le foto della nave aveva detto:”Ah, io su quella nave non ci sarei salito”.